Il diario segreto - Realtà storica

Battaglia di Colle e Donna Sapìa:

Una storia tra realtà e leggenda

Introduzione

Il tema principale ruota attorno alla Battaglia di Colle, che si è svolta nel 1269 a Colle di val d’Elsa e alla figura di Sapìa, una gentildonna che ha assistito personalmente a quella battaglia.

La battaglia si è svolta tra gli schieramenti opposti dei guelfi e dei ghibellini, per tale motivo il primo paragrafo è dedicato alla storia di queste due fazioni.

Il secondo paragrafo è invece dedicato agli anni precedenti alla Battaglia di Colle, per far capire come si è giunti a quello scontro.

Il terzo paragrafo e quelli seguenti sono invece interamente dedicati ai temi principali, quindi la Battaglia e la figura di Sapìa Salvani, soprattutto per quanto riguarda la sua “apparizione” nella Divina Commedia di Dante Alighieri. 

Guelfi e ghibellini 

Guelfi e ghibellini erano i nomi di due fazioni opposte che dal XII secolo sostennero rispettivamente la casata di Baviera e Sassonia dei Welfen e quella di Svevia degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen. Tutto ciò è da inquadrare all’interno del conflitto tra Chiesa e impero. Le due casate sopra citate erano in lotta per la corona imperiale dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125), che non aveva eredi.

I primi conflitti, quando ancora le due fazioni non avevano una denominazione, hanno origini ancora più lontane nel tempo. A partire all’incirca dall’anno 1075, quando il pontefice Gregorio VII, nel concilio intimato a Roma, contrastava l’interdetto al Re d’Alemagna Enrico IV che intendeva che fossero conferiti benefizi ecclesiastici a tutta una serie di “persone non degne”, riempendo così, secondo il Papa, la Chiesa di uomini intrusi e ambiziosi. Enrico, negli anni a venire, iniziò ad operare per ottenere le dimissioni del pontefice. Dopo essere stato riabilitato del Papa e dopo però aver mancato di fede alle sue promesse, Gregorio nel 1080 tornò a scomunicarlo.

Dagli anni seguenti, non esiste città o terra che non abbia guelfi e ghibellini che si odino a morte e, secondo molti, quest’ultimi si distinguevano per uno spirito di superbia. 

Nel corso del Duecento però le rivalità tra guelfi e ghibellini ebbero luogo soprattutto in Toscana, a partire dal 1216 con le ribellioni tra le famiglie fiorentine degli Amidei e dei Buondelmonti. A quel tempo la città di Firenze era alleata con Lucca che era in guerra per motivi di confine con Pisa, insieme alle alleate Siena e Poggibonsi. A raccontare i vari screzi di questo periodo ci furono molti autori, tra cui sicuramente Dante:

«La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v'ha morti,
e puose fine al vostro viver lieto,

ora onorata, essa e i suoi consorti:
o Buondelmonte quanto mal fuggisti
le nozze sue per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti che son tristi,
se Dio t'avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch'a città venisti.

Ma convenìesi a quella pietra scema
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse
vittima nella sua pace postrema.»

(Dante, Divina Commedia, canto XVI del Paradiso, 136-147)

Se fino a questo momento, Colle di val d’Elsa era rimasta esente dai conflitti tra guelfi e ghibellini, dai decenni a venire la situazione cambia, poiché la cittadina, oggi in provincia di Siena, si ritrova a diventare anche campo di battaglia, trovandosi quasi a metà tra le città rivali di Firenze e Siena. 

Anni antecedenti alla Battaglia di Colle

Colle di val d’Elsa iniziò a risentire di questo clima di conflitto dal 1246, quando i ghibellini, insieme ai tedeschi, si impadronivano della guelfa città di Volterra, oggi in provincia di Firenze, ma non molto distante dalla cittadina colligiana. San Gimignano, Poggibonsi e Colle di val d’Elsa, essendo tenute dal giuramento a seguire l’esercito imperiale, si mobilitarono verso Volterra, ma restarono umiliati dai ghibellini.

Nel 1258 i guelfi erano padroni di Firenze e i pochi ghibellini rimasti furono obbligati alla fuga dai fiorentini, tra cui anche il capitano Farinata degli Uberti che si ritirò a Siena. Qui il capitano ghibellino non si perse d’animo e iniziò a spedire ambasciatori in Puglia per ottenere soccorso da Re Manfredi. Nel 1260 i fiorentini iniziarono a muoversi verso Siena, dove poco dopo vi giunsero anche i colligiani.

Ci fu poi la battaglia che fu vinta dai fiorentini. I vincitori, come segno di esultanza, presero la bandiera di Manfredi e la trasferirono a Firenze. I senesi non si avvilirono e combinarono un prestito di 20mila fiorini d’oro con la Compagnia mercantile Salimbeni, mettendo come garanzia la Rocca di Tentennana ed altri castelli. A quel punto, iniziarono a reclutare quante più milizie poterono e a chiamare tutti i ghibellini presenti in Toscana, formando un corpo di circa 18mila combattenti e riuscirono a riconquistare Montepulciano e Montalcino.

Oltre che da Firenze, la lega guelfa era composta da molti comuni, tra cui Orvieto, Perugia, Volterra, San Gimignano e Colle di val d’Elsa. In tutto formavano un’armata composta da 3000 cavalieri e 30mila pedoni. Nell’agosto del 1260 l’esercito partì verso Siena con l’intento di riprendersi Montepulciano e Montalcino e si fermò nelle vicinanze del fiume Arbia, nei pressi di Montaperti (poco distante da Siena).

La mattina del 4 settembre l'esercito ghibellino, superato il fiume Arbia, si preparò alla battaglia. In questo contesto si verificò un tradimento: Bocca degli Abati, schierato dalla parte guelfa era in realtà un ghibellino e alla vista del contrattacco senese, si avvicinò al portastendardo fiorentino Jacopo de’ Pazzi e gli tranciò di netto la mano che reggeva l'insegna. L’episodio creò un forte sconcerto dalla parte guelfa, che oltretutto subì pensanti perdite: sul campo persero la vita circa 2500 fiorentini e 1500 ne furono fatti prigionieri e anche i colligiani subirono una grossa perdita.

I senesi, condotti dal maresciallo Giordano e da Farinata, tornavano padroni di Firenze e iniziarono una potente persecuzione dei guelfi, che riguardava la loro confisca dei beni, il diroccamento di palazzi e torri, il saccheggio di ville, mobili e poderi e la loro ferocia si spinse anche allo scavamento del sepolcro dove da tre anni giaceva il corpo del gran cittadino Aldobrandino, che fu trascinato lungo le strade. Inoltre, anche le bandiere e gli stendardi dei fiorentini furono presi e lo stesso gonfalone di Firenze fu attaccato alla coda di un asino e trascinato, come racconta anche Dante:

«Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso,

tal orazion fa far nel nostro tempio.»

(Inferno X, 85)

 

Dopo la pesante sconfitta, anche a Colle di val d’Elsa (di parte quindi guelfa), in molti erano preoccupati per il proprio destino e decisero di lasciare la propria patria, cercando esilio altrove per non subire “l’ira ghibellina”, che infatti arrivò anche su Colle.

Negli anni seguenti la fazione dei ghibellini aveva acquisito un tale predominio che Re Manfredi veniva riconosciuto come una sorta di sovrano assoluto e pretendeva di espellere tutti i guelfi dall’Italia intera e comporre un unico regno con lui a capo. I guelfi rimasti chiesero aiuto a papa Clemente IV che appoggiò l’intervento in campo di Carlo d’Angiò.

Sentendosi minacciato, Re Manfredi, cerò di portare Carlo a battaglia il più velocemente possibile, il quale tentò a sua volta di far uscire Manfredi allo scoperto, che si era rifugiato nei pressi di Capua, in Campania. Dopo vari tentativi, le due fazioni opposte si scontrarono in quella che oggi è nota come la Battaglia di Benevento, in cui ebbe la meglio Carlo d’Angiò. Tale sconfitta per Manfredi segnò anche una grossa sconfitta per tutto il partito dei ghibellini, i quali vennero uccisi e cacciati in tutta Italia. Questa vicenda viene anche narrata da Dante nel suo Purgatorio.

 

Battaglia di Colle

Scomparsi gli affanni degli esuli Colligiani per la battaglia di Benevento e per la morte di Re Manfredi, dopo sei anni di tristezza iniziavano a far ritorno in patria. A Colle, il Municipio richiamava in vigore l’Editto del 1173, privilegiando chiunque vi facesse domicilio, offrendogli un terreno gratuito per fabbricarci casa ed orto. Nella cittadina inoltre stava iniziando a svilupparsi una fervente attività imprenditoriale e manufatturiera.

Nel frattempo, il partito guelfo iniziava a riprendere vigore e a Firenze Carlo d’Angiò accettava la direzione del suo governo per ben dieci anni. Colle seguiva la parte guelfa sotto il comando del Potestà Arrigolo Accarigi, che prometteva obbedienza a Re Carlo. Nel maggio del 1267 fu sancito il Trattato di Viterbo, che segnava l’ufficializzazione dell’incarico conferito a Carlo d’Angiò come paciere di Toscana.

I ghibellini però, tutt’altro che sconfitti, cercavano di riprendersi e di invogliare il popolo a schierarsi contro i guelfi. Cominciarono prendendo possesso di alcuni confini di vari comuni, come Colle e San Gimignano, per fare in modo che i guelfi non vi transitassero. I Municipi coinvolti, preoccupati della situazione e dal fatto che i ghibellini si fortificassero nell’importante posizione del Castello di Ulignano (nell’attuale San Gimignano), decisero di intervenire e di attaccare quel castello, per poi inseguire i fuggitivi verso Pisa e Poggibonsi, fino a quando il grosso delle milizie ghibelline si ritrovò fra le mura di Pisa e Siena.

Il capitano Provenzano Salvani ed il Potestà Guido Novello, nel giugno del 1269, partirono da Siena con 1400 cavalieri e 8000 fanti senesi, pisani, tedeschi, spagnoli, fuoriusciti fiorentini e altri toscani, accampandosi nell'altopiano della Badia nei pressi dell'Abbazia di Spugna (attuale Colle di val d’Elsa). I Colligiani, che non si aspettavano questo assedio, si rinchiusero fra le fortificazioni di Colle Alta e mandarono dei messaggeri per chiedere aiuto a Firenze, la quale il giorno seguente, cominciò a inviargli aiuto tramite il maresciallo Giambertaldo Vicario del Re Carlo, a capo di 400 cavalieri francesi e altrettanti guelfi. Durante la notte il maresciallo transitava dalla parte superiore di Colle non occupata dai ghibellini e schierò sulle mura i francesi. La mattina seguente, alle prime luci, la torre ghibellina segnalò l'avvicinarsi delle truppe inviate da Firenze, anche se in realtà al momento della battaglia l'esercito fiorentino era ancora a Barberino, e ordinò che si suonassero le trombe e che si gridasse a squarciagola "con impegno", in modo da far credere ai ghibellini che le truppe da combattere fossero molte più di quante essi non credessero. Questa tattica spaventò effettivamente in nemico, immaginando di trovare a Colle una moltitudine di combattenti. Per prevenire il fatale incontro, i ghibellini insistevano per abbandonare il piano di Spugna, ma il capitano Salvani ordinava la ritirata per poi ritirarsi verso San Marziale, lungo il fiume Elsa. All’opposto Giambertaldo, impugnando il vessillo del comune di Firenze, era smanioso di sfidare la fortuna con un secondo colpo strategico, intimando che un drappello di Terrazzani di Colle si armasse occultamente al nemico.

Partivano i Terrazzani e il maresciallo uscì da Colle valicando il fiume Elsa, arrivando sul ponte di San Marziale, per togliere ai suoi nemici la speranza di una ritirata, a cui non restava che combattere. Iniziava così la battaglia di Colle, che seppur di proporzioni minori rispetto a quella di Montaperti, ha una sua importanza soprattutto a livello strategico. Nonostante poi gli esiti, i condottieri Guido Novello e Provenzano Salvani erano quanto di meglio potevano schierare gli eserciti pisano e senese giunti a Colle per annientare la città. Il progetto dei ghibellini era quello di sottomettere Firenze, per tale motivo anche Colle doveva essere distrutta, perché sua alleata. Dopo la battaglia di Montaperti, la sconfitta di Colle doveva essere una sorta di formalità per i ghibellini. Colle poteva contare sui reduci e su qualche altro aiuto, ma i colligiani combattevano per la loro stessa esistenza e per la propria libertà. Era sceso in campo il popolo per cercare di evitare una nuova forma di schiavitù. Combatterono insieme mercanti ed artigiani con accanto il resto del popolo contro uno schieramento imperiale, i ghibellini, ancora legato al privilegio del latifondo e alle mani dei due condottieri, Novello e Provenzano, che da tempo cercavano di egemonizzare l’intera Toscana.

Iniziato l’attacco, i Colligiani scesero sul campo di battaglia, assaltando il nemico, circondando così i ghibellini. Il capitano Salvani cercò di arretrare, ma nel disordine rimasero coinvolti molti uomini ed altri si allontanarono dal campo. Provenzano, non uso a soccombere in guerra e incerto sul ritorno umiliante che lo attendeva nella sua Siena, di cui ne era diventato il Signore, prova un ultimo disperato tentativo e si lancia insieme a pochi cavalieri tra i fanti di Colle. Cadde però trafitto per mani di Regolino Tolomei, legati tra loro da un odio personale e la sua testa fu recisa dal busto e portata sopra una lancia, mostrata nel campo di battaglia. Le cronache dell’epoca raccontano che la testa fu issata sulle mura del Castello di Colle con la faccia rivolta verso Siena, a monito di essa e di tutti coloro che fossero passati da Colle, fin tanto che il suo volto non diventò irriconoscibile.

Giambertaldo era riuscito a vincere con 800 cavalieri e circa 300 fanti colligiani, contro l’esercito avversario composto da 9400 uomini.

«Quegli è, rispose, Provenzan Salvani ed è qui perché fu presuntuoso

a recar Siena tutta alle sue mani.

Ito è così, e va senza riposo

poi ché morì: cotal' moneta rende

a soddisfar, chi è di là tropp’oso»

(Purgatorio XI)

A battaglia conclusa, con la definitiva sconfitta dei ghibellini, i Colligiani decisero di confermare la scelta fatta nel 1267, ovvero quella di appoggiare lo schieramento guelfo e, in seguito, la cittadina di Colle rimase sempre di parte guelfa.

Anche Siena divenne guelfa e sotto la Balia dei Nove conosce il suo massimo splendore combattendo e andando in soccorso a Firenze ed altre città guelfe in svariate occasioni da quel momento in poi.

La Battaglia di Colle del 1269 viene raccontata dal poeta Dante attraverso le parole di una donna che realmente ha assistito a quelle vicende: Sapìa, zia di Provenzano Salvani.

La figura di Sapìa

Sapìa Salvani fu una gentildonna senese, moglie di Ghinibaldo Saracini, signore di Castiglionalto presso Monteriggioni (in provincia di Siena) e zia paterna di Provenzano Salvani.

La storia ci racconta che Sapìa, come anche altri nobili senesi di parte guelfa, si era allontanata da Siena, dove avevano prevalso i ghibellini e per questo decise di trasferirsi nella guelfa Colle di val d’Elsa.

Quando nel giugno 1269 i ghibellini senesi, con a capo suo nipote Provenzano Salvani e i guelfi fiorentini si scontrarono in battaglia a Colle, Sapìa iniziò a pregare affinché i suoi concittadini senesi perdessero contro i colligiani.

La donna seguì la battaglia dall’alto delle mura di Colle e vide anche quando il nipote fu ucciso, la sua testa decapitata per poi essere esibita come trofeo. Quando questo accadde Sapìa, anziché essere triste per la morte del nipote, cominciò ad esultare.

È incerto il modo con cui la sua vita giunse al termine. Le ipotesi più avvalorate sostengono che la donna sarebbe stata strangolata a Colle, a largo del Palazzo Salvetti, oppure morte di fame.

Sapìa viene anche ricordata per opere di carità, come dimostra la fondazione da lei aperta del 1265 di un ospizio per i pellegrini, situato nei pressi di Castiglioncello, che poi venne ceduto alla Repubblica di Siena.

 Sapìa raccontata da Dante

Il poeta Dante nella sua Divina Commedia compie un viaggio nell’Oltretomba, passando per tre “mondi” diversi: l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso. L’opera è divisa in tre cantiche, che corrispondono ai tre mondi appena citati, contenente cento canti totali. Lungo il suo viaggio, in compagnia della sua guida Virgilio, Dante incontra vari personaggi femminili, tra cui Sapìa Salvani, diversa dai canoni femminili descritti dall’epoca del “dolce stil novo”.

Il poeta incontra la donna sulla Seconda Cornice del monte del Purgatorio con indosso una pesante e ruvida cappa grigia e gli occhi cuciti dal filo di ferro, pena assegnata dal poeta agli invidiosi. Dante colloca la gentildonna in questa categoria di peccatori perché ha commesso il peccato di augurare il male a qualcuno, rallegrandosi per le sfortune altrui.

Infatti, durante la battaglia di Colle, Sapìa alla vista dei suoi concittadini senesi e vedendo suo nipote Provenzano ucciso brutalmente, cominciò ad esultare vivacemente, come “riporta” Dante nella sua opera:

“tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia, / gridando a Dio: ‘Omai più non ti temo’"

(Purgatorio, XIII, 121-122)

 Il poeta nel suo viaggio nell’Aldilà incontra anche Provenzano Salvani, poiché Dante lo colloca sempre all’interno del Purgatorio, ma tra i superbi. L’incontro tra i due avviene nel XI canto e il poeta colloca l’uomo proprio tra questi peccatori perché in vita ha peccato di superbia, volendo diventare a tutti i costi signore e padrone della città di Siena. Dal giorno in cui è morto cammina sotto il peso del masso, scontando la giusta pena per chi osa troppo mentre è in vita. Dante chiede ancora come sia possibile che Provenzano sia già in Purgatorio, dal momento che chi attende a pentirsi in punto di morte deve poi attendere nell'Antipurgatorio tanto tempo quanto visse, a meno che qualcuno non preghi per lui. Gli viene raccontato che quando in vita era all’apice della sua potenza, Provenzano volle riscattare un amico dalla prigionia di Carlo d'Angiò, quindi andò a chiedere l'elemosina in piazza del Campo, a Siena, umiliandosi di fronte ai suoi concittadini.

Nonostante il fatto che Sapìa venga rappresentata come una donna di forte personalità, non ha riscontrato molta popolarità a dispetto di altre figure femminili presenti nella Commedia.

Proprio come gli altri “invidiosi” presenti nel suo girone, la gentildonna senese è costretta a vestire panni ispidi e pungenti dal colore spento e tutte le anime cercano di sostenersi l’uno a fianco all’altro, addossandosi alla parete del monte. Ma il dettaglio che più caratterizza Sapìa è il mento alzato, come usano fare i non vedenti, poiché la donna ha gli occhi cuciti ed è costretta ad alzare la testa per vedere le ombre.

Dante e Virgilio giungono in questa Seconda Cornice nel tredicesimo canto del Purgatorio. Non vi trovano immagini o sculture, ma una pietra uniforme di colore "livido". Inizialmente i due poeti non incontrano nessuno lungo il cammino, ma ad un certo punto iniziano a sentire delle voci: spiriti che esprimevano moniti alla carità. Da questo Viriglio intuisce che si trovano tra gli invidiosi e spiega a Dante che queste anime, che in vita hanno peccato, sono stimolati ora da esempi di carità, virtù contraria all’invidia.

La prima voce che passò volando

'Vinum non habent' altamente disse,

e dietro a noi l'andò reiterando...

(Purgatorio)

Le anime che vede Dante sono tutte appoggiate alla roccia del monte e gli ricordano i ciechi che chiedono l’elemosina davanti alle chiese. I soggetti non sono attraenti da un punto di vista figurativo, poiché caratterizzate da un forte “grigiore”, tant’è che si confondono con le pietre. E dunque, gli invidiosi non solo non possono vedere, ma il non-colore delle loro cappe fa sì che si confondano con l’ambiente circostante, perdendo la propria identità.

Di vil ciliccio mi parean coperti,

e l'un sofferia l'altro con la spalla,

e tutti da la ripa eran sofferti...

(Purgatorio)

Dante sembra quasi non voler guardare quelle anime che non possono ricambiare il suo sguardo, ma la sua guida lo incoraggia a rivolgersi a loro. Il poeta inizia il suo discorso augurando alle figure presenti di lavare presto ogni macchia dalla propria coscienza, per poi chiedere se tra loro c’è qualcuno che sappia parlare l’italiano.

L’anima che gli risponde è quella di Sapìa Salvani, che si rivolge al poeta sollevando il mento con aria interrogativa. l poeta chiede alla donna di dire il proprio nome o il luogo di provenienza e l'anima risponde di essere stata senese, e di fare ammenda con gli altri delle sue colpe. Aggiunge, in tono quasi ironico, che a dispetto di come suggerisce il suo nome, lei in vita non fu saggia e anzi, fu sempre assai più lieta dei danni altrui che della propria felicità.

"...Savia non fui, avvegna che Sapìa

fossi chiamata, e fui de li altrui danni

più lieta assai che di ventura mia...

Nonostante lei fosse senese, spiega Sapìa a Dante, quando i suoi concittadini con a capo suo nipote Provenzano si scontrarono a Colle di val d’Elsa contro i colligiani, lei iniziò a pregare Dio per la sconfitta dei senesi, esultando e sfidando Dio con queste parole: “Omai più non ti temo”. Aggiunge inoltre che questo accadde quando era già “anziana” e quindi e quindi meno giustificabile nella sua follia.

In punto di morte però si pentì, e sarebbe ancora nell’Antipurgatorio se Pier Pettinaio non l’avesse ricordata nelle sue preghiere e provando carità nei suoi confronti. Dopo avergli raccontato il motivo della sua presenza in quel luogo tra quelle anime, Sapìa chiede a Dante il suo nome, intuendo di aver a che fare con un vivo.

Il poeta gli risponde sostenendo che quando la sua vita sarà giunta al termine anche lui sarebbero toccate quelle stesse pene, poiché peccatore di invidia o più probabilmente gli dice che potrebbe finire nel girone con i superbi. Sapìa gli chiede chi lo abbia condotto fin lì e Dante indica Virgilio, confermando di essere ancora vivo e di poter far visita a qualcuno per suo conto, una volta che sarà tornato in Terra. La donna reagisce con meraviglia e chiede al grande poeta di ricordarla nelle sue preghiere e, se mai capitasse in Toscana, di recarsi a Siena per restaurare la sua fama. Conclude il discorso dicendo a Dante che nella sua città natale troverà il popolo che nutre ancora speranza nel porto di Talamone dal quale non ricaverà nulla come dalla ricerca del fiume Diana. Finisce con questa nota di scherno verso i suoi stessi concittadini, sembra voler sottolineare come il popolo senese sia stato illuso di trovare un inesistente fiume sotterraneo e di ritrovare la perduta grandezza.

È probabile che questo ultimo discorso della donna risenta dello spirito fiorentino dello stesso Dante, che conservava il ricordo bruciante della sconfitta di Montaperti dovuta in gran parte proprio alla ghibellina Siena, mentre qui Sapìa rievoca la sconfitta di Colle Val d'Elsa che fu per i Guelfi una terribile rivincita.

Molti studiosi hanno provato a capire quale fosse il vero motivo per cui Sapìa odiasse così tanto Provenzano Salvani ed il popolo senese, ma ancora oggi non se ne conosce la vera causa. 

Dante tra guelfi bianchi e guelfi neri

Dante Alighieri, famoso per essere stato un grande scrittore e poeta, era noto ai temi anche per essere politicamente attivo. Nato nel 1265 a Firenze, era abituato a dare per scontato che la sua città si dividesse in due: i buoni, cioè i guelfi che erano a potere della città e i ghibellini, i cattivi che invece erano stati cacciati. Dante morirà a Ravenna dopo un lungo esilio, dovuto alla frattura che era nata all’interno dello stesso partito dei guelfi.

I guelfi quindi, che erano al controllo di Firenze, sostenevano il Papa, in quanto ritenevano che solamente lui fosse legittimato a governare, dal momento che era stato investito direttamente da Dio del potere di guidare gli uomini verso la giustizia e la correttezza. Tuttavia, dopo la conquista del potere, i guelfi si divisero in due gruppi: bianchi e neri. I guelfi bianchi, pur sostenendo il Papa, non precludevano la possibilità del ritorno dell’imperatore. I guelfi neri invece erano pienamente sostenitori del Papa come unico avente il diritto di governare. Ben presto tra guelfi bianchi e neri vi furono violenti scontri, che portarono all’esilio dei primi e alla presa di potere sulla città dei secondi.

Dante si schierò apertamente dalla parte dei guelfi bianchi. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. A causa del suo schieramento, Dante fu odiato dai suoi avversari, e per questo motivo Bonifacio VIII mise in atto una strategia che attirò Dante in una trappola.

Un fedele condottiero dei guelfi neri iniziò così un’azione persecutoria nei confronti dello scrittore che finì così tra gli imputati con varie accuse tra cui l’estorsione e la baratteria. Con la sentenza del 10 marzo 1302 Dante venne condannato a due anni di esilio, che si trasformarono in seguito in un esilio definitivo.

L’esilio per Dante fu un duro colpo perché dovette dire addio alla sua amata terra. Iniziò così una lunga fase di sofferenza interiore dalla quale nacque il suo più grande capolavoro: La Divina Commedia. In alcune parti dell’opera, il poeta fa infatti riferimento al suo esilio, con accenni anche ai reati di cui fu accusato.

 Rappresentazioni di Sapìa Salvani

In occasione dei 750 anni trascorsi dalla Battaglia, a Colle di val d’Elsa è stata organizzata una mostra dedicata alla donna intitolata: “Savia non fui”. Dante e Sapìa fra letteratura e arte.

Quello stesso anno, nel 2019, si è svolto un grande evento che ha avuto luogo in data 15 giugno nell’area di Bacìo, sotto le mura di Colle Alta, dove 750 anni prima si era svolta la battaglia, che ancora oggi ha un grande significato per il popolo colligiano.

Il 15 giugno 2019 infatti è stato ricreato l’ambiente tipico di quel tempo, con la partecipazione di 300 figuranti, facendo rivivere proprio quell’epoca storica. Durante l’evento, in orario serale, è stato anche ricreato lo scontro tra guelfi e ghibellini.

La figura di Sapìa non è sicuramente tra le più note dell’opera di Dante, ma anche di questo episodio della Divina Commedia sono state realizzate varie raffigurazioni da alcuni artisti, tra cui Sandro Botticelli. L’immagine più famosa dell’incontro tra Dante e Sapìa probabilmente è quella realizzata da Gustave Doré, autore di una serie di raffinate xilografie che negli anni Sessanta dell’Ottocento furono inserite in un’edizione della Divina Commedia divenuta celebre.

Gustave Doré, autore di una serie di raffinate xilografie che negli anni Sessanta dell’Ottocento furono inserite in un’edizione della Divina Commedia divenuta celebre.

Commenti

Post più popolari